Sempre più le famiglie arcobaleno si avviano verso un riconoscimento giuridico. Tuttavia questo non avviene in tutti gli stati dell’Unione Europea allo stesso modo. Le famiglie arcobaleno dovrebbero essere tutelate pienamente al fine di eliminare ogni discriminazione che riguarda i figli che appartengono a questa tipologia di famiglie. Cosa succede quando una famiglia omosessuale si trasferisce da uno Stato in cui è riconosciuta ad uno in cui non ha questo riconoscimento e quindi non riceve alcuna tutela? Oggi infatti i diritti basilari come quello alla libera circolazione vengono spesso negati alle famiglie arcobaleno anche nell’Unione Europea. Può accadere che una coppia di omosessuali che siano sposati e abbiano figli in un determinato Stato dell’Unione, trasferendosi in uno Stato membro in cui tale riconoscimento non è normativamente previsto, come per esempio l’Ungheria, la Polonia, l’Italia, debbano affrontare numerosi ostacoli al fine di ottenere il riconoscimento della loro genitorialità. La Commissione Europea propone quindi un nuovo regolamento, l’Equality Pack, che stabilisce che se sei riconosciuta come una famiglia in un Paese, lo sei anche in tutti gli altri. Molti potrebbero pensare che si tratti di un principio talmente ovvio che sembra persino ridondante doverlo ribadire, eppure oggi in Italia, e in pochi altri Paesi come Polonia e Ungheria, i figli di coppie omogenitoriali non sono riconosciuti alla nascita, con tutto ciò che consegue dal mancato riconoscimento di tale stato. Ciò è stato fatto per tutelare i diritti e nell’esclusivo interesse dei figli di genitori omosessuali attualmente discriminati rispetto ai figli di famiglie eterosessuali. La questione è complicata, perché mette in contrapposizione due temi: il diritto di famiglia, la cui competenza è degli Stati membri, con il diritto alla libera circolazione che rappresenta uno dei principi fondativi dell’Unione Europea e che nessuno Stato può limitare. Il fatto che la Commissione abbia scelto lo strumento del regolamento, che per essere attuato nella sua completezza non ha bisogno del passaggio nei parlamenti nazionali ed è immediatamente esecutivo, segnala l’urgenza di superare questa discriminazione, ma a Bruxelles stanno pensando a un percorso ancora più stringente per fare pressione sugli Stati che ancora oggi sono restii ad attuare tale riconoscimento.
Nel nostro Paese il riconoscimento della genitorialità omosessuale non è, come sopra scritto, per niente normato e per ottenere una qualche forma di tutela occorre adire l’Autorità Giudiziaria che, tuttavia, in molteplici casi si è pronunciata favorevolmente al riconoscimento della genitorialità omosessuale. In Italia infatti non esiste una legge che regolamenti e tuteli la genitorialità di una coppia omosessuale. Per questo il nostro ordinamento riconosce solo la responsabilità del genitore biologico del bambino, mentre il genitore elettivo, dal punto di vista legale, non esiste. Tuttavia, su tale argomento si stanno facendo dei passi avanti. La Corte Costituzionale, infatti, ha riconosciuto che il desiderio di avere figli è espressione della “fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi” di qualunque essere umano. Per le coppie omosessuali la possibilità di avere accesso, sia pure all’estero, a varie tecniche di procreazione medicalmente assistita ha reso possibile la realizzazione di quel desiderio all’interno della coppia. Purtroppo a questa possibilità non fa seguito il riconoscimento automatico del genitore non biologico dei figli nati con tali tecniche. Nonostante quel genitore sia tale, e tale si senta, fin dalla nascita del desiderio, quindi assai prima della sua realizzazione. Ragione per la quale non è e non può sentirsi semplice “genitore sociale” di suo figlio. La legge sulle Unioni civili ha regolato i rapporti della coppia omosessuale, mancando di regolamentare la relazione della coppia con i figli nati al suo interno. L’Italia non è l’unico Paese dell’Unione Europea che non riconosce l’omogenitorialità; ad essa infatti si aggiungono la Romania, la Polonia, l’Ungheria, la Lituania, la Bulgaria, la Slovacchia e la Lettonia. Si spera che l’Unione Europea, attraverso una normativa direttamente applicabile negli Stati membri, “costringa” gli stessi a normare tali situazioni riconoscendole e tutelandole.
di Rossella Calcagnile
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